Divertente riscoprire i romanzi di fantascienza di fine anni 50. Soprattutto quelli della cosiddetta “fantascienza tecnologica” (hard-SF in inglese)
Pur ancora con una certa ingenuità di fondo, essendo stati scritti negli anni tra il lancio dello sputnik e lo sbarco sulla luna, offrivano ancora spazio per una fantasia, ma nell’ambito della plausibilità scientifica, senza quelle complicazioni di tipo esoterico e parapsicologico, che riuscivano bene a Phlilip K. Dick quando usava la fantascienza come analisi della società (tipo “Do androids dream of electric sheeeps ?” o “La svastica sul sole“), ma che spesso diventando pallosissime, in altri autori moderni.
L’inglese Henry Kenneth Bulmer non appartiene certo alla schiera di autori di scienze-fiction assurti a scrittori di valore assoluto fuori dal genere (ricordo che la fantascienza è stata spesso un ottima ambientazione per capolavori che affrontavano temi molto profondi (come i due citati romanzi di Dick o “I mercanti dello Spazio” di Pohl e Kornbluth)
Neppure è considerato uno scrittore di primo livello del genere, la maggior parte dei suoi romanzi non sono mai stati tradotti in Italiano, molti furono pubblicati solo in traduzione tedesca con l’autore in vita e riscoperti e pubblicati in versione originale solo dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2005. Addirittura come il primo Simenon scrisse molti romanzi di genere diverso dalla SF (in aprticolare romanzi storici) con una serie di pseudonimi.
Qualcuno direbbe un onesto mestierante. Non posso dare un giudizio, avendo scoperto per caso l’autore in questo romanzo breve pubblicato prima della mia nascita nella collania “Urania”. Diamo la data esatta del romanzo: 1954 (pubblicato in Italiano nel 1954)
Una storia semplice che narra con assoluta plausibilità scientifica di un uomo che, condannato a vivere in mancanza di gravità, nelle stazioni spaziali, costruisce una enorme astronave per aggiungere Saturno per completare il sogno di un fratello scomparso in una analoga missione.
Storia senza pretese sociologiche, ma scritta molto molto bene.
Riporto quanto contenuto nelle note che il curatore della Collana scrisse nella prefazione all’edizione del 1959 (unica in Italia), di cui sottolineo la frase finale: “ma un autore originale, che non si dimentica.”
“Lo spazio non è amico degli uomini. Lo spazio è un nemico da vincere, ma dal quale non bisogna lasciarsi impressionare, e al quale non si deve lasciar prendere il sopravvento. Questa in breve la filosofia di Dan Harding, che nonostante tutto considera gli uomini più importanti di ogni altra cosa. Gli uomini e tutto ciò che essi sanno costruire, sulla Terra per giungere nello spazio, e nello spazio per spingersi sempre più oltre. Stazione spaziale 539 parla di Dan Harding e della tenacia quasi feroce con cui egli accetta la sfida che lo spazio gli ha lanciato quando per la prima volta lui ha osato alzare gli occhi al regno delle stelle. Per la sua audacia Harding è stato anche orribilmente punito. Ma l’umiliazione a cui il corpo dell’uomo è stato sottoposto, non gli ha indebolito né il cuore né il cervello, ed è con rinnovato fervore che Harding riprende la lotta contro il cosmico nemico. Seguiamolo nella sua titanica impresa attraverso le parole di Bulmer, un autore nuovo per i lettori di Urania, ma un autore originale, che non si dimentica.”